La chimica è...

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Una volta si stava meglio: quando la memoria ci gioca brutti scherzi

23 settembre 2024

Il passato è un animale grottesco, recitava una canzone degli Animal Collective. Paradossale e inafferrabile, il ricordo di ciò che è stato impera sulle nostre vite presenti, misurando la qualità delle nostre giornate. E questo lo si vede bene dai trend di mercato: viviamo immersi in un mondo nostalgico, dominato da romantici tentativi di persuaderci a consumare quello che abbiamo perso dalla nostra giovinezza, la purezza e la bontà delle tradizioni di una volta. E sullo sfondo delle nostre frustrazioni, della delusione o della disillusione che proviamo verso la contemporaneità, si staglia un pensiero inquietante quanto suadente: non è che forse si stava meglio una volta? Senza tutte queste diavolerie tecnologiche, senza le consapevolezze che abbiamo oggi, senza i rimedi per ogni possibile problema.


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Questo pensiero, però, nasconde un tranello molto scivoloso. Il passato è un posto caloroso, familiare, che conosciamo bene e che funge da termine di paragone per il presente. Ricordiamo la nostra vita com’era quando andavamo a scuola o all’università, e possiamo sempre confrontare la vita che viviamo oggi con quella di un tempo per giudicare lo stato attuale delle cose. Possiamo fare lo stesso per il cibo che mangiavamo, per la classe politica che ci guidava, per i giovani di una volta, e così via. Il passato, o meglio, ciò che ricordiamo del passato funge da punto di riferimento. Il problema, però, è che questo metro di paragone è tutt’altro che preciso.

La ricerca ha, infatti, ampiamente dimostrato che il modo in cui richiamiamo alla memoria gli eventi passati può essere sistematicamente distortouno dei cosiddetti sette peccati della memoria. In effetti, richiamare informazioni alla memoria non è esattamente come prendere una foto dall’album dei ricordi: al limite, la foto sarà ingiallita, ma il contenuto sarà rimasto fedele all’originale. Per i ricordi, invece, le cose non stanno così. Per esempio, è stato dimostrato che tendiamo a ricostruire gli eventi passati in un modo che è coerente con le nostre credenze e i nostri valori attuali – per questo facciamo fatica ad ammettere che un tempo ci piacevano cose imbarazzanti. Questo ci può portare persino a formare dei falsi ricordi, come hanno dimostrato Frenda e colleghi in uno studio del 2013, dove si scoprì che i liberali avevano più probabilità di ricordare di quella volta in cui George W. Bush andò in vacanza durante l’Uragano Katrina o che, al contrario, i repubblicani ricordavano più facilmente che Obama strinse la mano al Presidente dell’Iran – entrambe cose mai accadute in realtà!

Il bias che però ci fa “ricordar le cose meglio di com’erano davvero” – tanto per citare un’altra canzone – è quello che i due psicologi cognitivi, Mitchell e Thompson, hanno definito come retrospettiva rosea. In un lavoro del 1994, essi definirono questo processo come la tendenza a ricordare e rievocare gli eventi vissuti in modo più affettuoso e positivo di quanto li abbiamo valutati al momento in cui sono effettivamente accaduti. Nel 1997, i due autori condussero una serie di esperimenti per testare questa ipotesi, misurando i giudizi di alcuni gruppi di persone in merito alle loro vacanze (viaggi all’estero, festività, percorsi itineranti in bici) in diversi momenti: prima, durante e dopo l’esperienza. Emerse un pattern chiarissimo: prima dell’esperienza, le persone avevano aspettative molto alte; durante l’esperienza, i giudizi di godimento calavano notevolmente e infine, a posteriori, dopo l’esperienza, i giudizi tornavano ad essere molto positivi.

Ma perché tendiamo a ricordare le cose che appartengono al passato in modo più roseo? Ci sono diverse spiegazioni per questo fenomeno. I ricordi che ci portiamo di quando eravamo giovani hanno una maggiore salienza emotiva: molti avvenimenti importanti nella nostra vita avvengono in una fascia di età che va dai 10 ai 30 anni, e questa facilità di accesso potrebbe portarci a sovrastimarne la piacevolezza. Per di più, anche l’autostima parrebbe giocare un suo ruolo nel richiamo distorto di questi ricordi: si tratterebbe di quello che Taylor e Brown definiscono come illusione positiva, ossia un insieme di percezioni irrealistiche di se stessi e delle proprie capacità che consente l’auto-esaltazione. Per tale ragione, richiamiamo alla memoria con più facilità i nostri successi piuttosto che i nostri fallimenti, così come abbiamo la tendenza a ricordare le nostre performance meglio di come fossero andate per davvero. Tutto quanto vi abbiamo appena raccontato ci porterebbe a valutare positivamente il nostro passato, soprattutto, quando si tratta di eventi in cui eravamo personalmente coinvolti. “La ragione principale per cui le persone distorcono la verità è perché accrescerebbe la loro autostima”, sosteneva Elizabeth Loftus, esperta di memoria – e dunque, per fare ciò, le persone alterano con dovizia e attenzione l’interpretazione di eventi passati di modo che questi e loro stessi vengano visti positivamente.

Quali sono le conseguenze di questo fenomeno? Come potrete immaginare sono tante, perché riguardano tutte le sfaccettature della nostra vita quotidiana. Noi oggi, però, ci soffermeremo sull’impatto che errori cognitivi di questo tipo possono avere sulle credenze umane, con conseguenze più o meno gravi sulle scelte di consumo. Ad esempio, il marketing sa bene che il passato esercita su di noi un forte fascino e da anni si impegna nella missione di richiamare alla memoria di noi consumatori i “fasti” del passato, dalla moda al cibo – è il cosiddetto marketing della nostalgia. Vanno sotto questo meccanismo quegli spot pubblicitari in cui si fa riferimento a come una volta fossimo tutti più felici, instillandoci in maniera subdola un bisogno – quello di sentirci nuovamente parte di un passato grandioso, per l’appunto roseo – dove l’oggetto in questione dello spot pubblicitario promette di mettere un cerotto su quella nostra ferita aperta dai marketer stessi. Non importa che si tratti di una passata di pomodoro come “quella della nonna” o di una pasta fatta con i grani antichi – sicuramente più sani e genuini di quelli che vengono utilizzati oggi – o, ancora, di una verdura raccolta come faceva il contadino con cura e attenzione ormai sessant’anni fa: tutto questo contribuisce all’obiettivo di indurci in un acquisto nostalgico.

Ora, oltre alla nostalgia consumistica che ci spinge a fare determinati acquisti, c’è anche il rischio concreto che le nostre credenze si pieghino sotto la forza di questi slogan nostalgici. D’altronde, con una visione distorta del passato come punto di riferimento, non possiamo che avere una visione distorta del presente. Questo si manifesta chiaramente nelle bufale e nei falsi miti riguardanti fenomeni che hanno subito cambiamenti nel tempo e che sfruttano la nostra nostalgia come “prova del nove”. L’incremento dei tumori? È colpa dei vaccini, che oggi sono sempre più spesso obbligatori. La disoccupazione? È colpa dei giovani, che oggi sono sfaticati. L’aumento dei divorzi? Una volta si teneva di più alla famiglia.

Ma per quanto i numeri possano smentire la nostra percezione, la tendenza al declinismo è molto forte. Secondo una ricerca del Pew Research Center del 2017, un italiano su due afferma che 50 anni fa si stava meglio di oggi, ma per moltissimi aspetti (economici, sociali, sanitari) sappiamo che non è così. Probabilmente non è il vostro caso, ma siamo sicuri che anche voi almeno una volta nella vita avrete flirtato con le lenti rosa, abbandonandovi a un’idea idilliaca del passato. Ma non dovete farvene una colpa, è capitato a tutti: ciò che è importante, però, è ricordarsi di cambiare paio di occhiali di tanto in tanto per scoprire il mondo che ci circonda con nuovi colori.