A questi nuovi bisogni, per fortuna, il mercato ha risposto prontamente. Ti sta a cuore l’impatto socio-ambientale dei tuoi acquisti? Niente paura: hai una grande scelta di imballaggi da fonti 100% vegetali o che almeno, genericamente, aiutano l’ambiente. Sei preoccupato per la tua linea o la tua salute? Ecco qui un prodotto senza conservanti, fonte di proteine, e ovviamente senza zuccheri aggiunti. Ben venga questa nuova sensibilità del mercato ad ambiente e salute, ma attenzione alla sostanza!
Negli ultimi 30 anni, l’interesse nei confronti dei prodotti considerati “green” è quasi quadruplicato e si è quindi voluto cavalcare l’onda dell’ambientalismo. Già nel 2009, però, un’indagine su 2219 prodotti made in USA e Canada ha evidenziato come il 98% di questi fosse stato pubblicizzato con tecniche di cosiddetto greenwashing [1].
Questo termine, formalizzato nel 1986 dal biologo e attivista Jay Westerveld, indica le operazioni di comunicazione che mirano a creare un’aura di sostenibilità ambientale intorno ad un prodotto, per nascondere o giustificare altri aspetti che, invece, proprio sostenibili non sono.
Un po’ come i sette vizi capitali, sono stati identificati sette “peccati di greenwashing”, di varia natura e gravità. Menzionare le virtù di un prodotto senza prove a supporto, o usando termini vaghi e fraintendibili, è considerato greenwashing. Lo è anche l’enfatizzare delle qualità ovvie o irrilevanti, come continuare a menzionare l’assenza di CFC in un frigorifero, quando i CFC sono già banditi per legge. Si arriva addirittura a pratiche fraudolente, come sottolineare un inesistente riconoscimento da enti o associazioni terze, oppure semplicemente dichiarare il falso.
Ma il “lavaggio verde” non è l’unico modo per guidare i nostri acquisti: per attirare l’attenzione di chi è attento a uno stile di vita sano, ecco che entra in scena il fenomeno analogo dell’healthwashing. Come suggerisce il nome, esso consiste nel presentare i prodotti in modo tale che appaiano più salutari di quanto non siano in realtà (o quantomeno più salutari rispetto ai compagni di scaffale).
Certo, su un’etichetta non possono essere scritte cose a caso: esiste una normativa che regola le affermazioni sulle etichette (“claims”) in base alle caratteristiche nutrizionali dell’alimento [2]. Questo però non impedisce che le normative vengano interpretate per mostrare il “bicchiere mezzo pieno”.
Un esempio? Dire che un prodotto è “senza zuccheri aggiunti” non implica che ne sia privo, come accade spesso in bevande o biscotti a base di frutta. Oppure, “fonte di fibre” è una formula invitante che può essere usata se il prodotto contiene almeno 3g di fibre ogni 100g. Limite poco indicativo, che permette anche ad una tavoletta di cioccolato di essere considerata “fonte di fibre” (ne contiene infatti ben 8g).
Neanche la cosmesi si salva dall’healthwashing: pensiamo a parabeni, siliconi, petrolati. Questi, se usati nelle modalità previste dai regolamenti non hanno alcuna controindicazione dal punto di vista della salute: eppure spesso si esaltano i prodotti che ne sono privi, quasi fossero migliori di quelli che, invece, li contengono.
Come orientarsi?
Essere consumatori consapevoli non è semplice, come non è semplice riconoscere un tentativo di “washing” se non si è specialisti in materia. È qui che dovrebbe entrare in gioco la cultura scientifica, non quella che si impara all’università ma, piuttosto, un atteggiamento di scetticismo consapevole che ci fa suonare un campanello d’allarme in presenza di formule preconfezionate. Questo, per primo, ci permette di difenderci di conseguenza: cercando di approfondire in autonomia su fonti certificate, o chiedendo ad un esperto del settore (ovviamente accreditato).
Noi consumatori abbiamo un potere enorme da usare con attenzione: quello di influenzare i comportamenti con le nostre scelte. Un acquisto consapevole non solo fa bene a noi, ma determina ciò che troveremo sullo scaffale domani.
1: Sins of Greenwashing – UL Solution
2: Ministero della Salute
Il Chimico sulla Tavola, progetto di divulgazione scientifica a cura di Matteo Capone e Chiara Biagini.