Prendere decisioni: è questa l’attività più frequente che svolge il nostro cervello quando siamo svegli. Decidiamo quando alzarci, cosa mangiare per colazione, come vestirci, che strada percorrere per andare al lavoro. Facciamo anche scelte più complesse, come quale carriera intraprendere o se acquistare quella casa un po’ troppo cara che però è proprio quella che avevamo sognato.
Le neuroscienze cognitive studiano i meccanismi che influenzano le nostre prese di decisione, nella speranza di aiutarci a prendere quelle giuste. Un compito tutt’altro che facile dal momento che non siamo macchine e basiamo le nostre scelte su ciò che già sappiamo del mondo che ci circonda: decidiamo spesso per analogia (se in una situazione che appare simile ho preso la decisione giusta, o ho visto qualcun altro prendere una decisione con un esito positivo, allora penso che ci siano buone probabilità che la stessa scelta si riveli vincente) e lo facciamo sulla base dei dati e delle informazioni che abbiamo a disposizione.
È per questo che l’informazione è così importante e, insieme all’educazione, costituisce il motore essenziale delle nostre scelte.
Lo sanno bene gli esperti di marketing, che ci spingono a consumare determinati prodotti evocando esperienze positive della nostra vita o benefici per la salute o per l’ambiente, ai quali diamo peso perché ne siamo venuti a conoscenza attraverso gli organi di informazione.
Una informazione falsa o fallace è quindi un danno non solo alla Verità in senso astratto ma anche alla nostra vita, perché ci porta a decidere in modo irrazionale, a vagliare male i potenziali rischi e benefici delle nostre scelte.
I meccanismi distorsivi delle prese di decisione sono stati studiati prima di tutto in ambito economico da due grandi scienziati, gli psicologi israeliani Daniel Kahneman (che per le sue scoperte è stato insignito del premio Nobel per l’economia nel 2002) e Anton Tversky. Una delle loro teorie più importanti, la teoria del prospetto, descrive come facciamo le nostre scelte quando sono in gioco possibili perdite (economiche ma anche emotive) e, in sostanza, ci spiega come valutiamo i rischi insiti in ciascuna decisione umana.
Con esperimenti cognitivi, Kahneman e Tversky hanno dimostrato che, a muoverci, più che la prospettiva del guadagno futuro è spesso l’avversione per le perdite potenziali: il nostro cervello tende a sovrastimare i rischi per metterci al riparo da danni eccessivi. Questo è quanto accade nella maggior parte delle persone, ma esistono individui che amano il rischio (i cosiddetti sensation seekers, o cacciatori di emozioni) e che si mettono in condizioni rischiose perché traggono piacere dalla scarica di adrenalina che ne ricavano.
Oltre agli aspetti personologici, conta moltissimo anche il contesto in cui le informazioni sui potenziali rischi e benefici vengono fornite all’individuo: è il cosiddetto “effetto cornice”, per cui se presento i possibili esiti di una decisione in termini di perdite (“questo intervento provoca la morte di un paziente su 10”) è meno probabile che le persone scelgano di agire rispetto a quando li presento in termini di guadagni (“questo intervento salva nove pazienti su 10”), anche se dal punto di vista statistico ho inquadrato la cosa esattamente nello stesso modo.
Quello che i due studiosi israeliani hanno dimostrato (e che molti altri dopo di loro hanno confermato) è che il nostro cervello è in difficoltà quando si tratta di soppesare le probabilità che un evento desiderato (o indesiderato) accada. Si tratta di un meccanismo biologico che ha delle precise funzioni evolutive: l’essere umano prende migliaia di decisioni al giorno e se dovesse vagliarle tutte razionalmente, calcolando le probabilità come farebbe un computer, resteremmo perennemente bloccati a pensare e soppesare. Non solo calcolare le probabilità di un evento è faccenda complessa ma spesso manchiamo proprio dei dati necessari per fare il calcolo matematico.
Per questo abbiamo sviluppato meccanismi di presa di decisione per analogia, basati su ciò che già sappiamo e sulle nostre esperienze di vita: gli esperti li hanno chiamati “bias cognitivi” (in inglese “pregiudizi cognitivi”) ma in anni recenti sono stati rivalutati nella loro funzione essenziale di “acceleratori del pensiero” per cui si preferisce oggi definirli “scorciatoie cognitive”.
A determinare i risultati di queste scorciatoie contribuiscono molto le fonti informative che abbiamo a disposizione. Per esempio, una volta che ci siamo fatti un’opinione su un determinato argomento, sulla base delle prime informazioni che abbiamo ritenuto attendibili, facciamo molta fatica a decidere in senso opposto. Si tratta del cosiddetto bias di conferma, secondo il quale l’energia che dobbiamo investire per cambiare idea è molto maggiore di quella necessaria a selezionare, tra tutti gli elementi a nostra disposizione, quelli che confermano l’idea che ci siamo già fatti.
In campo scientifico, il bias di conferma può essere un problema se l’opinione che ci siamo costruiti è basato su informazioni false o incomplete, oppure se le conoscenze che abbiamo su un dato argomento (cosa che accade spesso) cambiano nel tempo. Basta pensare a quanto è accaduto con la pandemia da Covid-19 per capire quanto, in fondo, siamo creature dal pensiero “rigido”, mal disposte a vivere in tempi incerti e ad accettare che la scienza scopra cose diverse (e potenzialmente opposte tra loro) giorno per giorno.
Altri meccanismi fanno di noi dei decisori ben poco razionali: per esempio diamo più peso ai rischi quando possono potenzialmente colpire le persone che ci sono care, e in particolare i bambini. È logico che sia così, dal punto di vista evoluzionistico: proteggiamo la nostra prole, che racchiude il nostro patrimonio genetico, più di quanto non proteggiamo noi stessi. Nella pratica, però, questo può portare a comportamenti eccessivi o a scelte non congruenti, come quelle di rifiutare ai nostri figli alimenti o prodotti che noi stessi consumiamo, in assenza di prove di danno effettivo per la salute.
Interferire con questi meccanismi decisionali è complesso e richiede tempo, consapevolezza, oltre a una discreta educazione scientifica, tale da permettere di bypassare le scorciatoie cognitive quando non sono utili a portarci alla migliore decisione per noi stessi o per la società tutta.
Un intero settore della psicologia cognitiva sta cercando di capire quali sono gli interventi più efficaci e qual è l’età migliore per cominciare a potenziare le nostri doti di decisori razionali, fermo restando che, in generale, nessuno sostiene che le decisioni puramente razionali (cioè basate esclusivamente sul calcolo probabilistico dei rischi e de benefici) sempre siano migliori di quelle che prendiamo tenendo conto di fattori impalpabili come i nostri valori, le nostre credenze e le nostre emozioni.
Daniela Ovadia è una giornalista scientifica con una formazione in medicina e neuroscienze cognitive. Dirige il laboratorio Neuroscienza e società dell’Università di Pavia e il Center for Ethics in Science and Journalism di Milano.