Ma qual è la storia di questa patologia che, secondo alcuni documenti risalenti al 50 a.C., era conosciuta sin dall’antichità?
L’etimologia del nome deriva dal greco “Diabetes” e indica il passaggio nel corpo di una quantità d’acqua pari a quella assunta. Nel I secolo d.c., Areteo di Cappadocia, celebre medico di Anatolia, descrive così le condizioni di un suo paziente: “non smette mai di urinare e il flusso è continuo come quello di un acquedotto; i malati hanno nausea, non trovano pace, hanno una sete terribile e muoiono entro breve tempo”. In queste poche righe si riconosce il quadro clinico che caratterizza il diabete di tipo 1 mentre quello di tipo 2, oggi largamente diffuso, anticamente non era stato individuato.
Nel medioevo si scoprì che il sapore dolce delle urine dei diabetici era dovuto alla presenza di glucosio. Negli anni a seguire si tentò di curare il diabete con diete prive di pane e altri carboidrati, con erbe e addirittura con il vino. Nel 1869, grazie al tedesco Langerhans, vennero scoperti agglomerati di cellule che presero il suo nome e di cui però non riuscì a descrivere la funzione; solo successivamente si comprese come queste ‘isole’ fossero deputate alla produzione di insulina.
Nel 1898 una scoperta rivoluzionaria: il medico austriaco Oskar Minkowski, asportando il pancreas a un cane, notò l’insorgere di diabete nell’animale comprendendo conseguentemente il ruolo fondamentale dell’organo nel controllo dei livelli di glicemia.
Fu solo nel 1921 che il ricercatore canadese Banting elaborò un procedimento per estrarre l’insulina dal pancreas, con la collaborazione del dottor Maclaod, che gli mise a disposizione un laboratorio, 10 cani e l’assistenza del dottor Best. Gli esperimenti condotti evidenziarono che nei cani con degenerazione del pancreas cui veniva somministrato un nuovo estratto, proveniente da cani sani, i livelli di insulina diminuivano e la patologia diabetica scompariva. Venne così identificato il ruolo delle isole di Langerhans nell’insorgere della patologia.
Ai due scienziati si affiancò poi il biochimico Collip che perfezionò il metodo di estrazione alcolica dell’isletina, termine derivante da ‘magic islands’, e la relativa purificazione da lipidi e sali. Gli studi su composizione e struttura dell’insulina proseguirono fino agli anni ’50 e ’60.
La svolta per la cura del diabete si ebbe dal 1966 con la sintesi biotecnologica dell’insulina umana e con i successivi progressi nella sintesi del DNA ricombinante, che resero possibile la modificazione genetica dei batteri per la produzione di insulina.
Questo fu, fino al 1985, l’unico modo per ottenere delle copie di DNA. La svolta avvenne grazie a Kary Mullis, inventore di un metodo estremamente preciso per selezionare e amplificare un segmento di DNA, la PCR (Polymerase Chain Reaction), che gli valse il Premio Nobel per la Chimica nel 1993. La PCR è una tecnica di biologia molecolare che permette la moltiplicazione di frammenti di acidi nucleici, di cui è costituito il DNA e dei quali si conoscono le sequenze nucleotidiche iniziali e terminali. L’amplificazione mediante PCR consente di ottenere molto rapidamente in vitro la quantità di materiale genetico necessaria per le successive applicazioni.
Ancora oggi la rivoluzione dell’insulina è in pieno fermento: i ricercatori stanno lavorando a un prodotto che non debba essere conservato in frigorifero e non è lontano il futuro dell’insulina smart, una versione modificata dell’insulina in grado di regolare con precisione l’assorbimento dello zucchero da parte dei tessuti, mantenendo la glicemia ai livelli fisiologici.
[1] Inglese SA Seconda indagine civica sul diabete. Disuguaglianze, territorio, prevenzione, un percorso ancora lungo. Rapporto ARNO Diabete 2021