Un chimico, quando ragiona, segue molte e diverse linee guida. La prima che impara, però, è che la chimica è fatta di quantità e qualità, e che questi due aspetti sono entrambi fondamentali. Presa in eccesso, anche l’acqua può essere letale; assunto in dosi minime, anche il cianuro può risultare innocuo. Una cosa che avevano ben capito gli antichi Greci, che per designare il veleno e la medicina usavano lo stesso termine, phármakon.
Non si possono, quindi, ignorare le quantità. Fare ragionamenti chimici senza considerare quanto aggiungo di una data sostanza, o quanto ne tolgo, semplicemente non ha senso. Non è un ragionamento, è una parodia.
Oltre che in termini di quantità, però, il chimico ragiona in termini di qualità, e non di rado questa è legata alla bellezza. Per il chimico la simmetria delle molecole svolge un ruolo fondamentale per capire come una molecola possa interagire con la luce o con altre molecole, ma in generale la chimica è una disciplina che ha bisogno dei sensi.
La vista, per distinguere i colori che ci dicono quando una reazione è avvenuta; l’olfatto, grazie al quale individuiamo gli odori delle molecole aromatiche (in chimica “odorose”, e non è detto che l’odore sia gradevole) e siamo in grado, se ben allenati, non solo di distinguere la fragranza gradevole degli eteri dal tanfo dantesco dei seleniuri, ma anche di inferire la struttura molecolare di alcune di esse – si favoleggia che Piero Pino, mitologico professore del secondo dopoguerra, fosse in grado di dire in che posizione si trovasse il doppio legame di un idrocarburo insaturo semplicemente annusandolo.
Un altro concetto base, nel pensare come un chimico, è quello di processo: inteso come azione che porta alla modifica chimica o fisica di un sistema, di un pezzetto di universo. Una molecola come la nitroglicerina può essere dannosa o benefica: se la ingerisci, è utilissima nel trattamento dell’angina pectoris o dell’infarto, ma se la prendi a martellate, anche se sei sano di cuore, rischi di fare una brutta fine.
Pensare a un materiale, a una molecola, senza considerare il processo necessario per ottenerla o conservarla rischia di portare al ragionamento dell’idealista di Ennio Flaiano, per cui, visto che la rosa ha un odore migliore di un cavolo, allora vuol dire che anche il brodo che se ne ricava sarà più buono.
Uno dei termini attraverso i quali un chimico, invece, non ragiona è la distinzione tra naturale e artificiale. Ci sono molti buoni motivi per ignorare pressoché del tutto questa differenza.
Primo, perché una molecola non dipende assolutamente da quella che è la storia, la provenienza, degli elementi che la compongono. Sostenere che una data molecola di sintesi ha una diversa funzionalità rispetto alla stessa molecola distillata dalla pianta è come dire che la parola “fungo”, stampata in caratteri a piombo, ha due diversi significati a seconda che sia stata stampata con caratteri nuovi di zecca oppure comprati al mercatino dell’usato.
Secondo, bisogna intendersi sul significato di “artificiale”. Se non esiste in natura, qualsiasi miscuglio o composto chimico prodotto mediante un processo riproducibile può essere tranquillamente definito artificiale.
Sin dal giorno in cui abbiamo iniziato a cuocere la carne, per esempio, abbiamo cominciato a produrre molecole che di naturale hanno ben poco. Esponendo ad alte temperature – cioè, mettendo sopra un fuoco o una brace – la carne o un miscuglio di farina e acqua, i carboidrati e le proteine naturalmente presenti nella carne reagiscono tra loro, secondo un meccanismo che venne studiato per primo dal francese Maillard, producendo un’enorme quantità di sostanze – pirazine, alchilpiridine, tiofeni e roba dal nome ancor più minaccioso – che formano la crosticina bruna, croccante e profumatissima tipica della carne arrostita e della crosta di pane. Roba artificialissima, ma non per questo dannosa, a patto che le temperature di cottura non diventino troppo elevate, nel qual caso le reazioni di Maillard progrediscono verso prodotti aromatici più di nome che di fatto, e ben più pericolosi – siamo in grado di fabbricare molecole cancerogene semplicemente cuocendo troppo il filetto, senza alcun bisogno di laboratori e provette.
Anche la distillazione di liquori da tradizionali erbe colte da sapienti monaci benedettini e cose simili prevedono, in seguito all’innalzamento della temperatura, reazioni chimiche che producono a tutti gli effetti molecole che in natura non esisterebbero.
Infine, “naturale” non significa “di sicuro giovamento all’organismo”.
La cicuta, pianta che cresceva spontanea già nell’antica Grecia, ben prima che venissero costruiti laboratori chimici di una qualche rilevanza, è senza dubbio un oggetto naturale, che la mano dell’uomo non ha contribuito a sviluppare in alcun modo; un decotto di tale pianta contiene solo ingredienti naturali, quindi. Eppure ci sono testimonianze attendibilissime (anche a livello umanistico, per chi non crede nella chimica – chiedere a Socrate per conferma) che tale decotto sia letale.
Mettere la mano in un vaso pieno di scorpioni può essere da coraggiosi; farsi pungere da uno scorpione “perché tanto il veleno dello scorpione è naturale” è da imbecilli.
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Da “L’architetto dell’invisibile, ovvero come pensa un chimico” di Marco Malvaldi, scrittore e chimico