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La “naturale” preferenza per il “naturale”

22 luglio 2024

Se vi chiedessimo di scegliere tra un gelato artigianale e un gelato artigianale, ma naturale, voi cosa rispondereste? Probabilmente, molti si chiederebbero dove stia la differenza – in che senso “naturale”? Altri, magari, inizierebbero a riflettere su quale dei due sia più sano – quale dei due è meno calorico? Altri ancora rifletterebbero sulla sicurezza – quale dei due darei a mio figlio? Questo crocevia di pensieri e di dubbi, evocato da una domanda semplice quanto provocatoria, sembra essere il frutto del grande potere che esercita su di noi la parola “naturale” – un trucco che il marketing conosce bene. Uno dei comparti che fa maggiormente leva su questo aggettivo è quello dei prodotti biologici: nel 2022, in Italia, il mercato alimentare di tali beni valeva 5 miliardi; negli Stati Uniti, ne valeva quasi 135. Ma quello del food non è l’unico settore a fare leva sull’immaginario della naturalezza: ad esempio, sempre in Italia, nel 2023, i cosmetici commercializzati come “naturali” e “sostenibili” ammontavano al 25% dei consumi totali dell’intera categoria.


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Insomma, è evidente un preciso trend: dal cibo alla cosmesi, dai detergenti per la casa ai medicinali, la percezione di naturalezza dei prodotti sembra essere diventata un driver fondamentale delle scelte di consumo. La definizione di ciò che è naturale, però, non è altrettanto chiara. Per molte persone è istintivo definire la naturalezza per negazione, ossia spiegando cosa non è naturale: tutto ciò che viene alterato, modificato, interpolato o contagiato dal contatto con l’uomo è innaturale. È quello che ha dimostrato Paul Rozin nel 2005 in uno dei primi studi che hanno indagato la nostra “naturale” preferenza per il “naturale”. Il cibo e le bevande che consumiamo, quando entrano in contatto con la mano dell’uomo in qualche fase di trasformazione, sia essa chimica o fisica, vengono giudicati come “contagiati” e perdono la qualità di naturalezza. È in questo processo intuitivo che si annida la paura per ciò che è “chimico” – altro termine ancora meno chiaro di “naturale”.

Ma perché istintivamente molti di noi preferiscono il “naturale”?

La naturalezza è spesso usata come una scorciatoia per semplificare un processo molto complesso. In effetti, nel nostro articolo precedente (che potete leggere qui) – avevamo parlato di quanto fondamentali fossero queste scorciatoie mentali – in gergo euristiche –  che ci permettono di orientarci all’interno del mondo e di essere quanto mai reattivi davanti ad alcuni stimoli. Pensate a scelte banali, come potrebbe essere quella del “che cosa compro al supermercato per la cena di stasera?”: se stessimo ad esaminare tutte le varie etichette delle alternative presenti sugli scaffali, nonché a richiamare conoscenze, magari raffazzonate, di nutrizione umana, perderemmo non solo energie, ma magari anche la voglia di fare una task quotidiana come la spesa. Quindi, ecco, se da un lato le euristiche alleggeriscono il carico cognitivo dietro ad alcune decisioni portandoci in media a giudizi accurati, dall’altro, invece, a volte possono farci cadere nei cosiddetti errori (o bias) cognitivi. Quando le persone giudicano un prodotto, utilizzano la percezione di naturalezza come indizio per inferire tantissime altre sue caratteristiche che sarebbero molto complesse da analizzare tutte individualmente – pensate ad esempio ai suoi valori nutrizionali, alla sua salubrità, al suo impatto ambientale, e così via. Naturalmente, questo processo ha molto più a che fare con lo stereotipo che abbiamo in testa di naturalezza che con l’accuratezza scientifica della risposta. In effetti, sono ormai molti gli studi che dimostrano come le persone quando acquistano un prodotto che ritengono più naturale lo ricollegano erroneamente a numerose altre qualità.

Un fattore chiave, ad esempio, è la percezione del rischio. Secondo alcuni studi condotti sul bias della naturalezza, le persone percepirebbero i prodotti naturali come più sicuri di quelli non naturali e questo spiegherebbe, in parte, l’istintiva preferenza umana verso i primi. Ad esempio, uno studio di Meier & Lappas del 2016 ha dimostrato come ponendo le persone di fronte a un’ipotetica scelta tra un farmaco “naturale” e un farmaco “sintetico”, di pari efficacia e sicurezza, il 79% di loro opti per il farmaco naturale, ritenendolo più sicuro. La cosa davvero interessante, però, è che una porzione significativa del campione (circa il 20%) continuava a preferire l’alternativa naturale a quella sintetica anche quando gli veniva comunicato che era meno efficace e sicura di quella sintetica. Questo supporterebbe la tesi che alcune persone hanno una preferenza così forte verso il naturale da mettere da parte, a volte, anche il concetto di sicurezza. Una buona notizia in fondo c’è, perché in uno studio di Meier e colleghi del 2019 è stato dimostrato come comunicando al gruppo di trattamento alcune informazioni utili (i cosiddetti appelli alla ragione) – come, ad esempio, il fatto che a volte alcune sostanze naturali possono essere dannose per la nostra salute o che, alcuni farmaci sintetizzati in laboratorio hanno salvato la vita di milioni di persone – i partecipanti si dicevano effettivamente meno propensi ad assumere un farmaco “naturale”. Questo sottolineerebbe, secondo gli autori, il ruolo che la percezione di rischio e/o di sicurezza gioca nelle preferenze dei consumatori verso un prodotto considerato come naturale e che il bias della naturalezza può essere mitigato “suggerendo” alle persone, in modo più o meno sottile, di impiegare uno stile di pensiero più deliberato e riflessivo.

Alla base della percezione sulla natura ci sono, quindi, delle aspettative ingenue sulla naturalezza stessa delle cose, che vengono spesso guidate da giudizi morali. Non è un caso che il bias della naturalezza sia collegato alla credenza che l’uomo giochi a fare dio con la Natura e che, dunque, molti interventi tecnologici – come ad esempio l’editing genomico o l’impiego di trattamenti fitosanitari – siano visti come interferenze non necessarie e, anzi, dannose per l’ordine naturale delle cose. Come osserva Rozin in un paper del 2005, forse tutto ciò non dovrebbe sorprenderci molto, perché nella nostra specie hanno sempre convissuto due impulsi contrastanti che modulano il nostro rapporto con la natura: da un lato, abbiamo un profondo rispetto e ammirazione per tutto ciò che è naturale; dall’altro, abbiamo sempre tentato di conquistare e dominare la natura, allo scopo di sfruttarla. Se da un lato ciò ci ha permesso di raggiungere traguardi importantissimi, oggi, paradossalmente, ci si ritorce contro sotto forma di depauperamento delle risorse naturali, distruzione degli habitat e fenomeni su larga scala come il cambiamento climatico. Quindi, forse, sarà anche sbagliato o irrazionale fare di tutta l’erba un fascio, ma di certo non è così sorprendente il nostro pregiudizio sull’azione umana.

 

Il problema, però, è che questo bias ha risvolti paradossali e potenzialmente deleteri per la persona e per l’ambiente. Alcuni studi hanno, infatti, dimostrato che quando giudichiamo alcuni prodotti come naturali ci sentiamo anche più giustificati a consumarli anche se sono notoriamente nocivi: è il caso delle sigarette. Baig e colleghi in uno studio del 2019 hanno provato che etichettando le sigarette come “naturali” fa sì che le persone percepiscano il fumo come meno pericoloso rispetto a quello delle sigarette “convenzionali”! La percezione di naturalezza può, quindi, spingerci a consumare in maniera eccessiva prodotti che crediamo meno pericolosi o più sani, perché naturali – anche se ciò non è necessariamente vero. Allo stesso tempo, se percepiamo che qualcosa non è naturale e, quindi, meno sana e più pericolosa, tendiamo ad evitarla, demonizzando così dei prodotti che sarebbero in realtà buoni per la nostra salute! Ecco un altro esempio di come spesso le nostre intuizioni e i nostri stereotipi ci portino a scelte poco felici.