Un importante contributo alla conservazione dei beni culturali arriva dalle biotecnologie.
Il biorestauro utilizza microrganismi, come i batteri, che, selezionati e applicati sulla superficie dell’opera, diventano veri e propri restauratori. Ci sono infinite varietà di microrganismi, così come molte possono essere le tipologie di alterazioni sulle opere d’arte. Una volta analizzata la natura della sostanza da rimuovere sull’opera, si selezionano i batteri utili, che possono ridurre, a seconda delle necessità, i solfati in idrogeno solforato, i nitrati in azoto molecolare e la sostanza organica in anidride carbonica (gas non tossici che poi si liberano nell’aria). I batteri, una volta terminato il proprio compito, si inattivano, non provocando alcun danno all’opera stessa.
Funziona davvero? Certo! Con queste tecnologie sono stati curati, per fare qualche esempio, la Pietà Rondanini di Michelangelo, alcune guglie del Duomo di Milano e parte della facciata di Santa Maria delle Grazie a Milano, opere che oggi possiamo ammirare “ripulite” in tutto il loro splendore.
Anche le nanotecnologie possono essere impiegate per il restauro. Soluzioni di nanoparticelle vengono applicate con il pennello sulle superfici lapidee o fatte penetrare nelle porosità, per respingere l’acqua delle piogge e neutralizzare muffe e batteri.
Un esempio concreto? Il progetto Nano-Cathedral, terminato lo scorso anno, che ha visto lo sviluppo di nanomateriali per la conservazione e il restauro a seguito di una ricerca condotta su litotipi rappresentativi di differenti stili, aree geografiche e condizioni ambientali. Tra gli edifici coinvolti nel progetto ci sono il Duomo di Pisa e la Oslo Opera House in Norvegia.