Partiamo dal caffè. Forse non ve ne siete mai resi conto, ma in qualunque maniera lo prepariate (con la classica moka, con la macchinetta per espresso, con la caffettiera napoletana, con quella americana, alla turca…), realizzate una tipica operazione da laboratorio chimico: un’estrazione con solvente.
In generale un’estrazione con solvente consiste nell’isolare un componente (in certi casi più di uno) da un campione (i chimici parlano di matrice), sfruttando la diversa solubilità in un dato solvente che tale componente possiede, rispetto alle altre sostanze presenti nel campione.
Nel caso del caffè, la matrice è costituita dalla polvere derivante dalla macinatura dei semi tostati di alcune specie di piante tropicali appartenenti al genere Coffea; il solvente invece è la semplice acqua calda presente nel dispositivo che state usando. La bevanda che assaporate con gusto tutte le mattine (e non solo!) è in pratica costituita da una soluzione acquosa dei componenti idrosolubili presenti nel caffè tostato.
Come è noto, esistono diverse varietà di caffè e quelle maggiormente utilizzate sono l’Arabica (Coffea arabica) e la Robusta (Coffea canephora), che hanno caratteristiche chimiche e organolettiche diverse.
La composizione della bevanda dipende quindi dalla miscela di caffè con cui viene preparata, ma anche dalla modalità seguita per la preparazione.
Un componente sempre presente, indipendentemente dal tipo di miscela usata e dalle modalità di preparazione, è la caffeina.
Dai chimici la caffeina viene indicata con il nome “esoterico” 1,3,7-trimetilxantina o, secondo la nomenclatura ufficiale stabilita dalla IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry), con l’ancora più oscuro nome 1,3,7-trimetil-1H-purin-2,6(3H,7H)-dione.
Si tratta di un alcaloide, ovvero di una sostanza con caratteristiche alcaline dovute alla presenza di gruppi amminici che presenta specifici effetti fisiologici. Oltre a essere presente nel caffè, la caffeina si ritrova nelle piante del cacao, del tè, della cola, nel mate e del guaranà e nelle bevande da esse ricavate. I componenti specifici del tè e del guaranà vengono chiamati rispettivamente teina e guaranina, ma sono chimicamente identici alla caffeina.
La caffeina ha un effetto psicoattivo e può creare dipendenza (caffeinismo). La struttura molecolare della caffeina è simile a quella dell’adenina, una delle basi azotate presenti negli acidi nucleici, ovvero il DNA e l’RNA. L’adenina, a sua volta, legata a una molecola di uno zucchero chiamato ribosio, forma l’adenosina, ovvero uno dei cosiddetti nucleosidi, importanti costituenti degli acidi nucleici.
La caffeina agisce da antagonista competitivo nei confronti dei recettori dell’adenosina posti sulle membrane cellulari. In questo modo favorisce il rilascio di particolari ormoni, quali adrenalina e noradrenalina, che hanno un effetto stimolante sul sistema nervoso simpatico. Come conseguenza si ha aumento del battito cardiaco, dell’afflusso di sangue ai muscoli e del metabolismo basale. Questi effetti, a loro volta, determinano una maggiore eccitabilità, un miglioramento dei riflessi e della capacità di concentrazione. Quest’ultimo è il motivo per cui una buona tazza di caffe può contribuire a combattere la sonnolenza.
Come ogni altra sostanza, anche la caffeina in dosi eccessive può risultare dannosa e persino letale. La cosiddetta dose letale (DL) orale nell’uomo è di circa di 150 mg/kg. Si tratta di una dose elevata perché mediamente in una tazzina di caffe è contenuta una quantità di caffeina pari a 85 mg. Quindi, per raggiungere la dose corrispondente a quella letale, un uomo di 70 kg dovrebbe bere contemporaneamente più di 120 tazzine di caffè!
Il contenuto in caffeina di un caffè, come dicevamo, dipende innanzitutto dal tipo di caffè utilizzato. La varietà Robusta ne contiene mediamente più della varietà Arabica. A parità di miscela impiegata, il contenuto in caffeina varia però anche a seconda della modalità di preparazione. Nel caso di un espresso, esso è minimo per un caffe ristretto (circa 60 mg): infatti la quantità di acqua utilizzata è ridotta e questo determina l’estrazione di una quantità minore di caffeina. In un caffè lungo, viceversa la quantità d’acqua utilizzata è maggiore e quindi aumenta anche la quantità di caffeina estratta. Per contro, nel caffè ristretto è maggiore la concentrazione di altre sostanze che ne causano l’aroma più intenso. Se invece il caffe viene preparato all’anglosassone, in una tazza da 200 ml, sono contenuti circa 250 mg di caffeina.
Ma c’è chi del caffè preferisce la versione “deca” (decaffeinato), cioè un caffè dal quale è stata eliminata quasi completamente la caffeina (al 95- 97%). Per ottenere questo risultato si sfrutta, guarda caso, ancora una volta un estrazione con solvente.
Il processo di decaffeinizzazione venne realizzato per la prima volta nel 1905, a Brema, dal tedesco Ludwig Roselius, che lavorava per l’azienda Kaffee-Handels-Aktien-Gesellschaft (Società Azionaria Commerciale di Caffe).
Come solvente per estrarre la caffeina in passato si usavano idrocarburi clorurati, quali il diclorometano. La caffeina è infatti solubile in questo solvente, mentre gli altri componenti, che conferiscono il caratteristico aroma al caffè, vi risultano insolubili. Le tecniche industriali utilizzate erano tali che nel prodotto finale non rimanevano tracce significative del solvente. Tuttavia essendo gli idrocarburi clorurati generalmente tossici, da qualche tempo il loro utilizzo è stato abbandonato. Oramai quasi tutti i procedimenti industriali per la preparazione del caffe decaffeinato utilizzano, come solvente per l’estrazione, l’anidride carbonica in condizioni supercritiche.
Qualche informazione anche per chi a colazione preferisce il tè. Il tè contiene caffeina, proprio come il caffè.
Il fatto che qualcuno chiami questa sostanza teina è solamente una scelta linguistica. In chimica si parla esclusivamente di caffeina, semplicemente perché tale sostanza venne individuata prima nel caffè e solo successivamente nel tè e in altri prodotti.
Le altre sostanze presenti nel tè, tuttavia, rendono l’assimilazione della caffeina più lenta, rispetto a quanto non accada per il caffe. Di conseguenza, bevendo il tè, gli effetti della caffeina sono più prolungati nel tempo, mentre con il caffè sono immediati, ma scompaiono rapidamente. Nel tè sono anche contenuti in elevata quantità particolari sostanze chiamate polifenoli. Essi hanno un effetto antiossidante, antinvecchiamento nei confronti delle cellule e, secondo alcuni studi, antitumorale. È inoltre presente una sostanza, la teanina, che ha proprietà ansiolitiche e che quindi compensa l’effetto neurostimolante della caffeina. Gli oli essenziali presenti possono infine avere effetti disinfettanti e digestivi, oltre a determinare un gradevole aroma caratteristico.
La quantità di caffeina varia a seconda del tipo di tè.
- La varietà che ne contiene di più è il tè nero. Esso viene ottenuto dalle foglie della pianta (Camellia sinesi) sottoposte a lavorazioni prolungate (macerazione, essiccazione, arrotolamento e triturazione). Tali processi portano alla formazione di nuovi composti di ossidazione che ne determinano il colore scuro. Tra questi composti ricordiamo teorubigina che conferisce all’infuso preparato con il tè nero il tipico colore rossastro aranciato.
- Il tè verde viene lavorato molto meno e ha un maggiore contenuto in polifenoli.
- Il tè bianco è ottenuto utilizzando le foglioline apicali della pianta e ha un contenuto ancora superiore in polifenoli.
- Esiste infine un’ultima varietà di tè, chiamata oolong o tè blu o tè qing. La parola oolong significa letteralmente “drago nero”. Esso consiste in un tè semiossidato prodotto principalmente in Cina e a Taiwan.
Molti bevitori di tè amano aggiungervi un po’ di latte. Tale abitudine non sembra essere consigliabile. Uno studio pubblicato sull’ “European Heart Journal” sembra infatti aver dimostrato che l’aggiunta di latte può rendere inutilizzabili gli antiossidanti presenti nel tè che possono svolgere un’azione protettiva a livello vascolare. Le proteine presenti nel latte vaccino (ma anche quelle presenti nel latte di soia) si legherebbero infatti alle molecole antiossidanti annullandone l’effetto benefico.
Non sembra invece avere alcuna controindicazione l’abitudine di aggiungere il limone. Tuttavia, se qualcuno di voi ha avuto occasione di spremere il limone in una tazza di tè nero, può aver notato una cosa singolare. Dopo l’aggiunta del succo di limone, la colorazione del tè diventa decisamente più chiara. Se vi è capitato di osservarlo, sappiate che avete assistito a un fenomeno che i chimici chiamano viraggio di un indicatore acido-base. Gli indicatori acido-base sono particolari sostanze che assumono colori diversi a seconda del pH della soluzione con cui vengono a contatto. Il pH è una grandezza (introdotta nel 1909 dal chimico danese Søren Sørensen) che serve per esprimere il grado di acidità o basicità di una soluzione. Se pH < 7, la soluzione è acida, se pH > 7, la soluzione è basica (o alcalina). Molti indicatori acido-base sono sostanze di origine vegetale. La teorubigina, che abbiamo citato prima che conferisce il caratteristico colore rossastro al tè è una di queste. Il succo di limone è acido, quindi la sua aggiunta abbassa il pH del tè. L’abbassamento del pH produce un cambiamento di colore (viraggio) della teorubigina che determina lo schiarimento del contenuto della tazza.
Per i contenuti si ringrazia Silvano Fuso, divulgatore e autore del libro “Chimica quotidiana. Ventiquattro ore nella vita di un uomo qualunque”.