La chimica è...

Post d'autore

Basta un poco di allarmismo e la pillola non va più giù

25 novembre 2024

“Basta un poco di allarmismo e la pillola non va più giù”, reciterebbe la versione moderna della formula magica di Mary Poppins. Spesso, infatti, le fake news fanno leva su una serie di meccanismi cognitivi che modulano la nostra percezione del rischio. Ad esempio, uno degli aspetti su cui più si genera disinformazione è quello degli ingredienti che sono sicuri in piccole dosi e nocivi in grandi dosi (es. l’aspartame, di cui Fatti, non fake! ne ha già parlato qui), ma la cui soglia di sicurezza è prontamente regolamentata con un approccio molto prudenziale. Spesso, però, le notizie ingannevoli su questi temi hanno uno stile comunicativo poco chiaro, che grida all’allarme, al “non ce lo dicono”.


9 min






La chimica è...

Basta un poco di allarmismo e la pillola non va più giù





9 min
TEMI

salute e sicurezza
A
A

Il target di queste news è molto chiaro: la nostra pancia, quasi letteralmente! In effetti, il modo in cui percepiamo il rischio è tutt’altro che un processo “lento e deliberato”. Vi facciamo un esempio: immaginate che sia una calda giornata di tarda primavera, state camminando in un prato di campagna dove l’erba è molto alta, quando tutto a un tratto un rumore cattura la vostra attenzione. Forse era un sibilo? Vi immobilizzate e restate in ascolto. L’erba sembra essersi mossa proprio dietro di voi. Così, nel girarvi di scatto, vi sembra di scorgere sul terreno una forma allungata e sottile. Senza pensarci due volte, state già scappando via il più lontano possibile.

 

Poteva trattarsi di un serpente o, forse, era solo un bastoncino. Ma poco conta, perché secondo la Teoria della Gestione degli Errori, il costo di sbagliarsi e non percepire la presenza di un serpente quando il serpente effettivamente era lì (un falso negativo) sarebbe molto maggiore del costo di sbagliarsi e percepire la presenza del serpente quando si trattava solo di un bastoncino (un falso positivo). Il falso negativo potrebbe costarvi potenzialmente un morso velenoso, mentre un falso positivo vi costerà solo una corsetta. Secondo alcuni psicologi cognitivi, da questa asimmetria nei costi dei nostri errori, si generano molti bias cognitivi che stanno alla base della percezione del rischio e che ci portano a pensare, automaticamente e sistematicamente, che sia meglio “prevenire che curare”. Sarà, quindi, anche vero che l’ingrediente X non è nocivo in certe quantità, ma io nel dubbio non lo ingerisco ed è su questo che si regge, almeno in parte, il cosiddetto “marketing del senza” (es. senza aspartame, senza alcol, senza coloranti).

 

A questo si aggiunge il fatto che stare dietro ai calcoli è faticoso da un punto di vista cognitivo. Quello che spesso accade, dunque, è che, invece di riflettere sulle quantità o sulle percentuali, richiamiamo alla memoria aneddoti (es. Una volta Tizio è stato male dopo aver mangiato X) e, sulla base di questi pensieri molto più semplici, stimiamo la probabilità che qualcosa sia rischioso: è il cosiddetto Bias della Disponibilità. Prendete il classico esempio del fumatore che dice che, sì, fumare farà sicuramente male, ma suo nonno ha fumato ed ha vissuto 100 anni senza neanche un acciacco. D’altra parte, però, alcuni aneddoti ci vengono in mente con molta facilità perché sono effettivamente rappresentativi di un’alta frequenza. Pensate agli infarti o ai tumori: ci sembrano “ovunque” perché in realtà l’incidenza è alta. Ma possiamo dire la stessa cosa degli incidenti aerei o degli attacchi degli orsi? Siamo sicuri che vi saranno venuti in mente esempi molto vividi di questi eventi, dovuti, però, alla forte salienza emotiva di alcune vicende recenti più che alla loro effettiva frequenza – per qualche dato sulle cause di morte, vi rimandiamo qui e qui, e sulle relative fobie, come l’aviofobia, qui.

 

Per di più, noi umani non siamo granché bravi alcuni formati numerici. Guardate le dita della vostra mano: sono 5! Il modo in cui misuriamo il mondo che ci circonda è profondamente ancorato al modo in cui, attraverso i nostri sensi, esperiamo gli stimoli intorno a noi. È stato dimostrato che di fronte ad alcuni indovinelli logici, presentare i dati in termini di frequenze, invece che in percentuali, migliora il ragionamento – facendo per altro “scomparire” alcuni errori logici. Ad esempio, anche la nostra comprensione degli effetti collaterali legati a scelte sanitarie migliora, come ha dimostrato lo studio di Knapp e colleghi (2010) in cui le stime del rischio diventavano più accurate quando i rischi erano presentati nel formato “tra le 3 e le 5 persone su 10 sviluppano un effetto collaterale”, piuttosto che in quello “il rischio di un effetto collaterale è tra il 30% e il 50%”.

 

Se è vero, però, che ce la caviamo meglio con i conteggi che con le percentuali, è altresì vero che alcune grandezze sono semplicemente inaccessibili per il nostro cervello. Pensate ai bollettini pubblicati durante la pandemia oppure al conteggio delle vittime di una guerra: alcuni numeri sono così grandi (o così piccoli) che diventa difficile processarli. Se ci viene chiesto di disegnare un puntino che rappresenti il valore di un milione su una linea orizzontale che va da mille a un miliardo, il 50% delle persone lo piazzerà intuitivamente a metà della linea, anche se, in realtà, dovrebbe cadere circa poco dopo l’inizio (Figura 1). Dunque, sebbene i numeri e le statistiche siano di vitale importanza nella nostra vita, noi umani non siamo calcolatori infallibili e questo ci si ritorce contro quando siamo chiamati a fare delle scelte.




Figura 1 - Una linea che rappresenta un intervallo di valori da 1000 a 1.000.000.000. Dallo studio di Landy et al. (2013) emerge che circa la metà delle persone segna il valore di 1.000.000 circa a metà della linea, mentre dovrebbe trovarsi poco dopo l'inizio

Come se le cose non fossero già abbastanza complicate, ci si mette anche il nostro impellente bisogno di sapere come stanno davvero le cose: vogliamo risposte certe e spesso le pretendiamo anche in breve tempo. Ne abbiamo avuto prova su larga scala durante i primi mesi della pandemia di Sars-Cov-2, quando in una situazione di profonda incertezza dove in gioco c’era la nostra vita e quella dei nostri cari abbiamo “fatto pressione” sugli esperti per cercare di ottenere risposte definitive sull’entità del virus, sull’efficacia delle mascherine, sulla sicurezza dei vaccini. Le reiterate pressioni dei media mettevano alle strette gli esperti che venivano incalzati finché i giornalisti non sentivano di aver ricevuto tutte le risposte di cui avevano bisogno, nonostante non fossero state ancora prodotte sufficienti evidenze scientifiche. In effetti, la scienza non sempre ha la risposta pronta e forse sarebbe meglio ricordarcelo per una prossima volta (speriamo di no!).

 

Questa esigenza umana di avere risposte immediate su questioni come quella finora descritta, ma anche su vicende più “banali” o se volete, quotidiane (es. alla fine di un colloquio, vogliamo sapere se siamo stati presi o meno per quel lavoro) viene definita come Bisogno di Chiusura Cognitiva. Si tratta di un fenomeno indagato per la prima volta alla fine degli anni ‘80 dallo psicologo Arie Kruglanski e definibile come il bisogno di ottenere risposte certe a un particolare quesito, al fine di evitare il senso di ambiguità che deriva dal non conoscere. Questa tendenza spiegherebbe la nostra necessità a colmare un deficit informativo e si manifesterebbe in una scarsa tolleranza verso risposte probabilistiche – guarda caso, proprio come quelle che riceviamo dagli esperti anche quando si parla di rischi per la salute. Certo, esistono delle differenze individuali: in media ci sono persone che sono più o meno tolleranti di altre verso l’ambiguità, anche se tale atteggiamento può essere influenzato da alcune variabili contestuali. Dunque, in linea generale, potreste essere persone che si sentono relativamente a loro agio in situazioni di incertezza, ma, per riprendere l’esempio iniziale, potreste comunque riconoscervi tra quelle persone che chiedevano a gran voce alla scienza di fornire risposte certe sul Sars-Cov2 nel 2020.

 

Ma di preciso come funziona questo fenomeno? Quando siamo in cerca di risposte, la nostra mente genera ipotesi e le testa, e ogni nuovo indizio raccolto sembra recare con sé una risposta. Questo processo, però, potrebbe continuare virtualmente all’infinito e, dunque, è proprio qui che si manifesta il Bisogno di Chiusura Cognitiva, spingendoci a terminare questo ciclo al fine di ottenere una risposta decisiva, ma non necessariamente accurata.

 

Dunque, se è vero che i numeri ci aiutano a misurare la realtà, è anche vero che spesso non soddisfano il nostro bisogno di chiusura cognitiva dal momento che le nostre domande non “accettano” risposte complesse. In conclusione, riprendendo l’esempio che facevamo prima, mentre siamo in attesa dell’esito del nostro colloquio di lavoro avere a disposizione una stima in percentuale delle persone che sono state prese per quella posizione con un curriculum simile al nostro non ci aiuterà davvero a tenere a bada la nostra impazienza, e in questo caso va bene così. È importante, però, ricordarsi che nel secolo delle incertezze e dei grandi eventi, la tolleranza al rischio è un’abilità da coltivare per i tempi a venire, anche per salvarci la pelle.