Mentre scrivo il numeri di contagi del SARS-CoV-2 nel mondo è 94.031.179, con 2.012.463 di morti. Potremmo fare una stima grezza e dire che 2,14 persone su 100 risultate positive al virus, sono morte. Numeri, freddi, che forse tolgono dignità a ogni singolo decesso, alla sua storia, ai suoi familiari che hanno “celebrato” un Natale con un posto vacante a tavola, che hanno inaugurato il 2021 con una terribile mancanza, ma al tempo stesso sono numeri, freddi, appunto, sui quali dovrebbe esserci poco da discutere.
Eppure, mentre dilaga questa pandemia, ci troviamo ad osservare anche i danni dell’infodemia: un’altra malattia, al punto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ne cerca una cura[1] ovvero sta tentando di arginare la marea di notizie (false) che circolano in rete, e purtroppo anche sui giornali, che distraggono le persone dalle (poche) conoscenze scientifiche che abbiamo su un nuovo patogeno e le inducono a compiere scelte folli che vanno dal non indossare presidi sanitari indispensabili all’assumere integratori o farmaci per i quali non è dimostrato alcun effetto preventivo nei confronti della malattia che tanto ci spaventa, la Covid-19.
Ma noi che frequentiamo il blog Fatti, non Fake! siamo abituati ad andare in profondità, non ci accontentiamo della prima impressione, e dunque possiamo concederci una riflessione più comoda sul tema.
Per esempio, possiamo partire dall’osservare come il processo informativo sia cambiato. Quando ero giovane (dirlo a 27 anni fa un certo effetto!) e frequentavo le scuole elementari, ogni volta che dovevo fare una ricerca sapevo che avrei dovuto chiedere aiuto a nonna che avrebbe tirato fuori dei libri enormi, un po’ ingialliti, con una copertina bordeaux e una grossa scritta “enciclopedia”. Lì avrei trovato qualsiasi informazione e potevo stare tranquillo, non dovevo verificare che fosse vera.
L’informazione era un processo passivo, le informazioni erano già verificate da altri: le redazioni, i comitati di revisione, etc. Poi, alle scuole medie, iniziai ad avere un mio computer con l’enciclopedia in versione digitale, e poi, dopo un po’, anche su internet. Pian piano, tramite il web, iniziavo a trovare molti più risultati nelle mie ricerche. Alcuni si contraddicevano: era possibile trovare pagine che dicevano che il cancro si curasse con acqua e limone e pagine che dicevano esattamente l’opposto. Com’è possibile che su un tema esistano diversi risultati che si contraddicono l’un l’altro?
Il processo informativo era diventato attivo: mentre prima era difficile che una persona si svegliasse e decidesse di aprire una propria casa editrice e pubblicasse un’enciclopedia con ciò che riteneva vero, adesso chiunque poteva aprire un blog e scrivere ciò che pensava.
Così abbiamo assistito al proliferare di siti e blog che offrono un’”informazione alternativa”: bufale condite da pseudoscienza per approfittare dei timori delle persone. Purtroppo, nessuno di noi era preparato a questo. Infatti, in molte persone è rimasta ben salda la convinzione che una notizia offerta da chi si propone di fare informazione sia onesta, verificata, autorevole e dunque credibile. Eppure così non è.
Negli anni, mentre è diventato possibile per chiunque pubblicare notizie, è diventato un dovere di tutti saperle verificare.
Per questo sono nati siti di debunking, di anti bufale, di divulgazione scientifica che aiutano le persone a muoversi in questo mare magnum dell’infodemia, letteralmente, secondo la Treccani[2]: circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento.
Ma perché la pseudoscienza piace? Come fanno alcune notizie, totalmente prive di ogni minimo fondamento logico, ad attecchire in noi?
Tante persone ogni giorno mi contattano sui social, dove mi dedico a divulgare la scienza e smontare le fakenews e mi inoltrano qualche notizia, generalmente sul Covid, chiedendomi “che ne pensi?”. Leggo nei loro occhi la speranza che qualcuno di cui si fidano gli dica “sì, è vero, è proprio così”. Ma se fossimo davanti a un nuovo composto chimico che viene proposto come farmaco capace di bloccare la replicazione virale del SARS-CoV-2, potrei capire che le persone si lascino tentare dal dubbio. Ma quando siamo davanti ad una catena di whatsapp che consiglia di bere bevande a più di 27 gradi perché il calore uccide il virus, come è possibile che molti ci caschino? Che tanti lo condividano “perché non si sa mai, e se poi funziona?”
Ecco questo prima riflessione ci lascia intendere lo stato emotivo di chi abbocca alla pseudoscienza: la disperazione, la speranza che ormai, come ultima spiaggia, qualcosa di anche improbabile possa funzionare. E questo avviene perché una scienza onesta, che dice ad un malato terminale che non c’è più nulla da fare, che dichiara onestamente i possibili effetti collaterali di un trattamento terapeutico, che risponde “non lo so” quando ancora non è riuscita a dimostrare qualcosa è certamente più deludente di chi con volto estremamente sicuro e sorriso rassicurante ci promette che le proprietà benefiche – e soprattutto naturali – di qualche integratore, pianta, amuleto o rito ci proteggeranno senza nessun rischio dai mali più terribili che la medicina – avida di profitti – non vuole curare.
È sul fronte emotivo che la pseudoscienza miete vittime: l’idea che un tumore si possa curare senza gli effetti collaterali della chemioterapia ma bevendo un po’ di acqua e limone al mattino appena svegli può diventare la speranza alla quale appigliarsi, alla quale voler credere.
Ora, tutti potremmo cascare in un inganno: sentirci completamente immuni dal cadere in queste bufale, potremmo sentirci superiori e pensare “ma dai, io non penserei mai di curare un tumore con l’acqua e limone”. Ebbene i livelli di profondità delle FakeNews sono un po’ come i gironi dell’inferno: ne abbiamo uno per ogni nostro peccato, o in questo caso potremmo dire convinzione.
Pensiamo alla recente pandemia per osservare quante bufale particolarmente insidiose e complesse da comprendere siano state prodotte. Pensiamo alla difficoltà che abbiamo quando, ad esempio, si polarizza lo scontro tra scienziati in tv. Siamo davanti a persone competenti che argomentano con un certo (magari solo apparente) rigore le proprie tesi e noi siamo davanti allo schermo e ci schieriamo. Siamo “chiusuristi” o “rassicuratori”? “allarmisti” o “possibilisti”? E non ci rendiamo conto che l’accettare questa polarizzazione significa già cascare nella trappola dell’infodemia.
Nel mio nuovo libro, “il Virus che non Esisteva”, scrivo:
«Gli scontri degli scienziati in tv sono stati uno spettacolo indecente. “Ma nella scienza è importante il dibattito” dicono alcuni, dimenticando che il dibattito scientifico avviene con dati alla mano e sulle riviste di settore; non nei talk show. Credo fermamente che quando si vuole comunicare con un pubblico di non addetti ai lavori non si è più scienziati. Bisogna togliersi il camice e diventare divulgatori. Infatti, mentre nel dialogo tra esperti il destinatario ha dei filtri per comprendere ciò che si dice, quando si parla di materie complesse e di nicchia come l’epidemiologia o la virologia a milioni di persone, occorre assumersi la responsabilità di valutare preventivamente il messaggio che arriverà. Nella comunicazione è mancata una visione d’insieme, si è ripetuto varie volte: “questa malattia non è l’ebola” con l’intento di tranquillizzare le persone. Giusto, la COVID-19 ha una letalità molto inferiore rispetto all’ebola. Al contempo, occorre aggiungere: poiché questo virus è così bravo a diffondersi, è un serio pericolo per i sistemi sanitari e infetta così tante persone, così velocemente che li fa collassare. Ecco, questo significa avere una visione d’insieme ed è per questo che dico: quando si va in televisione bisogna togliere il camice da scienziato e indossare quello da divulgatore.»
Ma se non ci aiutano gli scienziati, come possiamo proteggerci noi?
Ricordando prima di tutto di non cedere mai alla polarizzazione, non siamo allo stadio a vedere la partita tra le squadre di provax e novax, siamo davanti ad un problema di salute e dobbiamo affrontarlo con metodo scientifico, chiedendoci sempre: c’è una dimostrazione di ciò che si sta dicendo? O sono semplici opinioni della persona che sta parlando?
Insomma, riassumendo, la regola è: Fatti, non fake!
Gianluca Pistore
Divulgatore scientifico e autore di “Il Virus che non esisteva: un viaggio nella scienza che ci tirerà fuori da questa situazione”